L’arte è, per chi la fa, uno sforzo di immaginazione. Questa parola non deve indurre a pensare a qualcosa di infantile o scisso dalla realtà. Si potrebbe in alternativa dire che l’arte è uno sforzo di visualizzazione, ma questo termine purtroppo cingerebbe troppo i limiti della nostra comprensione ad uno spettro puramente visivo. E la nostra vita non può basarsi su una sola proiezione degli occhi. Se l’arte fa parte così tanto della vita, tanto da sovrapporsi perfettamente con essa – idea che cerchiamo di portare avanti in questa sede – lo sforzo che si chiede al visitatore è immaginativo, più o meno nella misura propria all’artista.

Questa mostra è il frutto di un lungo percorso di immaginazione, entusiasmo, ragionamento, introspezione, osservazione e scambio. È una mostra che prova a spostare: ci siamo immaginate cosa non riuscisse a entrare in queste pareti e abbiamo provato a farlo giungere.

Per prima cosa, all’interno di queste pareti non riesce ad arrivare la luce. La luce naturale parla del tempo che passa, non può essere uguale a se stessa in due momenti differenti della giornata, né può esserlo in momenti differenti dell’anno. La luce accade a noi, spesso, perché incontra superfici e i suoi cambiamenti ci raccontano lo scorrere del tempo e, di conseguenza, di tutte le cose. Così una finestra o un soffitto diventano orologi imprecisi, che non misurano ma si fanno semplice monito di ciò che è e non sarà più.

Ci siamo anche rese conto che l’immaginare è, a volte, codificare, perché codici e simboli sono universali e attraversano spazio e tempo. Così abbiamo eletto il gesto a codice: la gestualità, attraverso la scrittura o la scomposizione di essa, e attraverso l’impressione, mettono in gioco due complessità: quella della storia del mondo e quella del paesaggio sonoro. Il segno è cosa umana, è volontà di impronta e di memoria. Lo si fa per raccontare un preciso momento o per tramandarlo, auspica in certi casi a diventare tradizione per spiegare ad altri ciò che pensiamo di aver compreso. Arrivano così nello spazio della galleria le tavolette di Armonia, secondo la tradizione di Nonno di Panopoli, che raccontano i miti della storia del mondo: le tavolette non esistono, non sono mai state trovate, ma parlano di saperi e storie che sono diventate parte integrante di religioni e narrazioni di tutto il mondo. Qui si sceglie Deucalione, che si avvicina a Noè, il cui mito parla di come l’umanità sia rinata dalla terra dopo esser stata spazzata via dall’acqua. Una storia, quella delle tavolette che lo spettatore vede in galleria, che si vuole avvicinare a quella degli originali, rimpicciolendosi fino a non essere più, nello spazio e nel tempo. E poi lo spazio, quello celeste, quello degli astri, ascoltato dall’artista e irrappresentabile per movimento mimetico, perché sconosciuto e quindi solo immaginabile per sensazione: il tratto che lo racconta, figura un andamento più che un ritratto, ma a ben guardarlo assomiglia a silhouette di paesaggi che invece l’occhio può catturare.

Abbiamo poi deciso di connettere il nostro spazio, quello della galleria, con lo spazio dell’universo.

Dal 29 settembre al 25 novembre 2024, l’asteroide PT5  gravita nell’orbita della Terra, diventando una seconda piccola luna. Il suo diametro è di appena undici metri, la sua velocità relativa talmente bassa da averci permesso di attirarlo a noi. È importante notare come la parete più lunga della galleria misuri circa gli stessi metri dell’asteroide.

È nata quindi l’idea di una corrispondenza, fra la curatrice, le due artiste e l’asteroide, che ha avuto inizio proprio il suo primo giorno di lavoro come seconda luna, ma che raggiungerà tutti il primo giorno di mostra, cioè il 1 di novembre. Ogni giorno per cinquantotto giorni – l’esatta permanenza di PT5 nell’orbita terrestre – le autrici hanno scritto e scriveranno una lettera al piccolo asteroide, non svelandone a vicenda il contenuto.

La galleria diventa così la casa dell’asteroide, o l’asteroide stesso, e nascono 174 lettere sul tempo, lo spazio, le orbite, le prospettive, sull’affetto e sulla cura, ma anche sulla solitudine e la distanza, per cercare di spiegare ad un ospite che viene da lontano, ma anche a se stessi, come funziona la vita, più o meno, attraverso gli occhi di due artiste e una critica d’arte. Un racconto dai toni intimi, che si aggrappa alla vita delle autrici, presentandosi quasi come un insolito diario di bordo.

Chiara Guidoni

Archeologia della distanza

Maria Pia Picozza Meri Tancredia cura di Chiara Guidoni