Claudia Angrisani (C.A.), Davide Silvioli (D.S.), Meri Tancredi (M.T.), Sara Tosti (S.T.), Medina Zabo (M.Z.) sono le personalità confluite in Fuori Fuoco, progetto sospeso fra mostra collettiva, libro d’artista, opera editoriale ora biografica e ora monografica, manifesto artistico, saggio critico e d’autocritica. Fra dialoghi e monologhi, fra soliloqui e conversazioni, le quattro artiste e il critico d’arte contemporanea si abbandonano al procedere della parola; al suo riprodursi come una cellula.

Ne emerge un confronto composto alle volte da incompatibilità e divergenze, altre da assonanze e congruenze, che sfugge alle norme dell’interlocuzione ordinaria per diluirsi, tuttavia senza perdere di attinenza, nello scorrere indisciplinabile del flusso di coscienza, dove le ragioni e i concetti si riscrivono senza una trama. Tale principio di insubordinazione si rispecchia nella scelta di non rientrare nei canoni del catalogo o del libro di mostra, ordinati gerarchicamente negli apparati, quindi inadeguati a restituire la sincronia tramite cui domanda, risposta, riflessione, citazione, immagine si sono spontaneamente delineate e sovrapposte nel perimetro di questa unica narrazione, in qualche caso filologica mentre in altri più intuitiva. Costante, invece, sembra essere l’esercizio comune di un punto di vista decentrato sugli argomenti attraversati, un’angolazione da dove i fenomeni risultano sempre fuori fuoco, mai definibili nitidamente. Fuori Fuoco, pertanto, anziché riunire ricerche differenti intorno alla condivisione – spesso imposta pretestuosamente – di un medium, di una tecnica o di una tematica, le raccorda secondo un nesso di fluidità basato sulla sensibilità derivante dalla condivisione dello stesso spazio (in mostra) e tempo (nell’esperienza). Su questo fondamento, i contenuti svariano dalle ragioni che sostanziano le opere in esposizione e presenti nella pubblicazione in oggetto, a lavori già realizzati ma qui non inclusi, a progetti ancora da finalizzare o ad altri da riformulare, inanellando questioni relative sia alla ricerca di ciascuna artista che alla contemporaneità artistica generale e all’entità dell’opera d’arte stessa, fino ad astrarre verso problemi senza tempo. Così destrutturata e riassemblata, la leggibilità e la visualità del libro, fra continuità e interferenze, riflettono il terreno magmatico su cui è radicato l’interno progetto, progredito al ritmo dell’irregolarità intensiva del bruciare di un fuoco, che trasforma le cose che investe e che dalle stesse è trasformato.

(Davide Silvioli)

FUORI FUOCO 

D.S.: Ma parlavate di queste “carte d’Armenia”…cosa sono? Perché le trovate interessanti?

M.Z.: 07/12/2021 (intervento cancellato)

M.T.: 08/12/2021 – Le Papier d’Arménie, me le ha fatte venire in mente Medina, parlava di bruciare, come metafora della vita e del creare. Ardere più che bruciare, essere accesi dal fuoco e non farlo spegnere. Sinesteticamente mi sono venute in mente queste cartine che bruciando producono un tipico profumo di resina balsamica, il benzoino. Il più antico profumo per la casa. Delle piccole carte, alla fine del processo fisico, rimane un ricciolo bruciacchiato, che riempie la stanza di un fumo profumato.

D.S.: Non posso che allinearmi con Medina, in questa interpretazione. L’esistenza indubbiamente è cosa che arde e consuma, così come l’atto artistico. Forse, perché siamo immersi in un’immanenza che, come Krònos, divora i suoi figli. Spesso, penso a questa condizione quando noto le luci accese dentro le finestre di un palazzo. La luminosità segnala che anche dentro quelle stanze, come un fuoco che arde, si vanno consumando altre vite. Tuttavia, similmente alle funzioni algebriche che tendono a zero o a infinito, penso che la vita e l’arte siano processi a meta indeterminata, però regolate da una norma comune; si tratta del“divenire” o meglio del“diventare altro”. Pertanto, il procedimento innescato da Meri bruciando le carte d’Armenia costituisce, a mio avviso, una perfetta parafrasi di questo “diventare altro”: Il fumo, il profumo, l’annerimento e il logoramento della fibra dei fogli conseguenti alla combustione identificano le possibilità delle Carte d’Armenia di “diventare” altro. Dunque, se l’esistenza e il processo artistico sono un perenne “diventare altro” allora – forse – la cenere, il fumo e il profumo sprigionato dall’incendio delle Carte d’Armenia rappresentano le tappe attraverso cui quel pezzo di carta diventa altro da sé, sebbene non fa nient’altro che esercitare le sue funzioni, che lo qualificano come “carta”. Ma quanto può cambiare qualcosa senza che diventi altro da sé?

S.T.: “Non è in questi luoghi sovrappopolati, dove si incrociano, ignorandosi, migliaia di itinerari individuali, che sussiste oggi qualcosa del fascino incerto dei terreni incolti, delle sodaglie e degli scali, dei marciapiedi di stazione e delle sale d’attesa dove i passi si perdono”. (Marc Augé, Nonluoghi, 1992)

Mi scuso, probabilmente sono una voce fuori dal coro. In questo momento della mia vita mi sento così spettinata…sento di aver bisogno di spazio per raccimolarmi, unirmi i pezzi. Forse sto bruciando, come bruciano le Papier d’Armenìe di Meri o come bruciano e si tessono i sentieri, le geografie, nei miei lavori. Questa collaborazione arriva in un momento preciso e le vostre considerazioni sono per me benzina che mi ha riportato alla radice. Poiché ognuno trae linfa da quello che attualmente sta vivendo, i discorsi sull’immateriale mi hanno subito fatto pensare al posto in cui sto lavorando, al non luogo. Il centro commerciale, un mondo promesso all’individualità solitaria, al passaggio, al provvisorio, all’effimero, in cui nulla si compie mai totalmente e dove si disegnano ‘incroci di mobilità’, dove migliaia di passi si perdono seppur sempre bene indirizzati. Scrivendo mi viene in mente un lavoro iniziato ma mai concluso. Avevo cominciato a stampare itinerari da google maps, che andavano dalla piccola piazza del mio paese, unico fulcro e centro di ritrovo di grande importanza per me, fino ad arrivare ai posti più disparati. Sono andata a coprire totalmente con la penna nera il territorio nel foglio, lasciando in bianco solo la linea del tragitto, come se un tarlo avesse mangiato, solcato quella linea.

«Quel che accade intorno a te / non è più affar tuo». Come la geografia di un paese che devi lasciare per sempre. Eppure in che modo ancora ti riguarda? Proprio ora che non è più affar tuo, che tutto sembra finito, ogni cosa e ogni luogo appaiono nella loro veste più vera, ti toccano in qualche modo più da vicino – così come sono: splendore e miseria. (Giorgio Agamben, Quando la casa brucia, 2020)

M.T.: 09/12/2021 – Le carte bruciano per profumare la casa. Quale casa? Quando la casa brucia? Il silenzio della distanza quando si guardano le luci calde dietro le finestre, il camminare soli nel freddo e nei pensieri. L’immagine che Davide ci restituisce è in qualche modo lo stato d’animo che mi ha spinto, come vi raccontavo, a smaterializzare sempre più “la forma”dell’opera. Questo processo di asciugatura, scomposizione, sedimentazione e dissezione è quello che cerco di fare con la scrittura da sempre. Parlo di “forma” perché l’opera per me è sempre stata immaginaria. La visualizzo con un “corpo” (una casa?) escludendo anche molto spesso l’idea progettuale, perché l’aspetto arriva con il ragionamento e con la messa in discussione degli elementi costituenti. Al contrario la narrazione rimane sempre in forma di scrittura, mi aiuta a darle la fisionomia che si sceglie, una partitura che restituisce immediatamente all’occhio l’insieme delle parti e ne individua la sua organizzazione. Darle fiato, un corpo di fatto e di diritto, serve per avere una visione esterna, un obbiettivo fotografico che mi restituisce un’istantanea analogica, che innesca nuove domande e quasi mai delle risposte. Negli ultimi anni, come scrive anche Medina, (Cosa stiamo guardando?) Il pensiero di ciò che volevo produrre mi bastava così tanto da farne una fotografia mentale e lasciarla in deposito.

Per il tempo buono.

Mi sono chiesta se servisse aggiungere “cose” alle tante “cose” che circolavano in giro. Lo sentivo un problema, non volevo produrre più spazzatura di quella che già c’era, e non volevo che le opere che pensavo per giorni, mesi, anni, fossero una delle tante fotografie che non stampiamo mai.

Ricordo che avvenne uno scambio di considerazioni (pre-pandemia) con Medina riguardo i social media, arrivando alla valutazione che poteva essere essenziale non pubblicare più nulla. Con Claudia arrivammo a restituirgli il giusto peso, non sono essenziali, ma come linguaggio comunicativo, non si può non tenerne conto. Con Miriam (l’Esule) ci ho fatto una residenza, programmata in anticipo di un anno rispetto a ciò che abbiamo vissuto in pandemia.

Qual’è il tempo buono allora? E se poi l’idea che è incontrollabile e di tutti come l’aria, decide di sorvolare le teste e di fermarsi su un’altra testa e venir fuori? Quando dargli voce?

Di contro alle tante “cose”, sento un fruscio delicato costante e in crescita, che striscia sottobosco e che sarà, lo sguardo nuovo, quel linguaggio che spinge. Il fuoco che arde, che non ha età, tempo e luogo.  Sono anni che cerco i significati illimitati di limite. Una scatola virtuale che consuma l’immagine, che la rende effimera non appena ci appare alla retina, che scompare e sedimenta. Farsi bastare l’idea dell’opera.

Bastarsi. Come corpo illimitato.

Ora sono in volo e sotto di me il mare, a metà le nuvole, davanti il cielo. Mi viene in mente di quando stavo realizzando i filmati per quello che sarebbe poi diventato il lavoro “ Limite di una distanza prossemica in successione monotona”, filmavo e domandavo. Avevo fatto un foglio, come quelli imbustati che si portano in aeroporto per accogliere qualcuno, con questa semplice domanda “ Cos’è per te il limite?”. Tradotto in molte lingue, negli aeroporti della Cina e del mondo dove facevo scalo, munita di registratore ponevo la domanda, non fu facile avere una risposta. Una ragazza cinese mi rispose: Il cielo. Non ne capivo il senso, per me il cielo è assenza di limiti. Lei ne ribaltava il significato mettendo al centro del discorso il non misurabile come limite. Quella vastità diventava l’ostacolo, l’inscrutabile, l’inconoscibile, che fa paura e che ci fa sentire piccoli esseri limitati. E allora l’opera come pensiero illimitato, la storia brevissima che diventa la forma di una persona, il pensiero, il titolo, il luogo, il profumo, l’assenza, la presenza, l’esserci, come entità pulsanti ardenti e illimitate.

Esserci.

Abbiamo parlato di carte tangibili, come l’ossigeno e il fuoco. Quelle che Medina non ricorda, in una prima forma che non convinceva nemmeno me, mi confermano che sono passate come le immagini nel web. Eppure sono fatte di carne e sangue, reali corpuscoli, che senza rendermene conto, ho associato in qualche modo a distanza di anni alle Papier d’Armenìe, queste sono intrise di benzoino e le mie del mio sangue.

A mia immagine e somiglianza.

Atterro.

M.T.:12/11/2021 – “Eidôlon – A mia immagine e somiglianza” era il titolo che avevo dato ad un gruppetto di quattro carte che avevo deciso di esporre.

La parte più consistente è nella scatola. Apro e conto per sicurezza di aver appuntato bene negli anni. Sono 415 fogli A4 intrisi nel mio sangue. Uno per ogni ciclo mestruale finora. Uno per ogni figlio che poteva nascere. Sono tutti diversi, li riordino e faccio cadere la polvere del sangue rappreso.

Ci sono dei parassiti della carta(credo), allora li scuoto sul pavimento e li apro a piccoli mucchietti, li ripongo nella scatola e raccolgo la polvere e i parassiti per gettarli nel sacchetto della spazzatura insieme ai residui di cibo, non posso metterli nell’indifferenziata. Credo sia meglio rileggere e continuare a scrivere domani. Faccio un video che pubblicherò, della polvere di sangue e degli insetti (non so cosa siano). Nel frattempo mi viene in mente un monologo “Gola” che avevo sentito recitare. Domani lo cerco. Ho registrato nuovi suoni. La zeta continua a saltare ed ho scritto quattro nuovi titoli.

M.T.:13/12/2021 – Questa mattina ho bisogno di rileggervi. Mi appunto l’ultima domanda di Davide: Quanto può cambiare qualcosa, senza che diventi altro da sé? Non lo so ma ho avuto il bisogno di riascoltare la registrazione che avevo fatto e di cui accennava Claudia. Registro spesso suoni, parole, rumori, poi li metto insieme e si rivelano, questa registrazione è già mutata, senza che io l’abbia lavorata. Penso al lavoro di Medina “In buono stato” e alle carte che non hanno forma perché un figlio non puoi sceglierlo.

Alla casa che brucia di Claudia…ai pezzi di muro, alle parole mendaci, ai tanti nomi…E mi viene in mente l’ultimo piccolo lavoro che ho fatto su plexiglass dedicato ai nomi delle tre donne che vissero questa casa dopo la guerra…”LEA”.                   A Sara spettinata, al vento che scuote tutto e che sparpaglia il fuoco e provoca incendi…al non luogo come stato d’animo, ai tragitti che tracciamo. Alle prove cartografiche come atto politico… Alla guerra che ci ricorda Miriam e a Mattia Torre e la sua Gola. E per oggi credo di aver finito, perché ho tante scatole da aprire ancora. Tanti titoli da scrivere, tante parole da immaginare e anche tanta fame.

D.S.: Cercando di sintetizzare i concetti portanti che sono emersi in merito all’approccio all’opera d’arte, trovo convincenti e pertinenti le vostre visioni che, seppur dalla soggettiva di ciascuna, manifestano una sensibilità comune. Mi riferisco al tentativo di esorcizzare l’entità dell’opera dal vincolo della materia; o meglio, di riformulare la proporzione secondo cui il materiale e l’immateriale sono relazionati. Tentare di esprimere quanto massimo sia possibile di immateriale, tramite il minimo necessario di materiale. Osservando le carte che bruciano di Meri, riflettendo su quanto esternato da Medina, sulla storia dietro all’opera di Claudia, al processo dinamico alla base dei lavori di Sara, sono spontaneamente spinto a considerare in che misura l’immateriale, a sua volta, influenzi quanto vi è di materiale e viceversa. Queste due categorie sembrano interconnesse da una sorta di proprietà transitiva, in un incessante ripetersi. Come il letto di un fiume che si svuota e si riempie nel medesimo istante, materiale e immateriale, presenza e assenza, essere e nulla, si rincorrono fino a sovrapporsi, al punto di rubarsi le parole, di essere la stessa cosa; proprio come forma e contenuto convivono nell’opera d’arte. Le cellule che ora compongono il mondo fisico, fra un istante saranno decadute e già sostituite da altre. L’identità materiale, ciò che definisce oggettivamente un corpo, è diversa dall’identità formale, ovvero come questo corpo appare, che a sua volta differisce dall’identità sensibile, cioè come esso “sente”. L’intrecciarsi l’uno con l’altro di questi tre aspetti, la loro interferenza, stabilisce, penso, la natura effimera di ciò che arde e si consuma; di ciò che diventa altro. Riuscire a ricodificare il ritmo infinitesimale di questo esperire – o ardere – delle cose (oltre che di noi stessi), sarebbe, in termini artistici, la massima espressione estetica; forse ciò che si avvicinerebbe di più e con coerenza maggiore al concetto di opera d’arte totale. Un’opera d’arte irreversibilmente iscritta nel divenire, o trasmutare, ora del percepibile e ora del sensibile. Il fuoco che Prometeo rubò agli Dei per farne dono all’uomo mortale non è solo emblema del sapere tecnico ma anche – azzardo – parafrasi di una condizione assoluta, che riguarda tanto la porzione più microscopica ed effimera di mondo quanto la legge più imperscrutabile dell’universo. L’arte, nell’epoca in cui il virtuale viene professato falsamente (poiché inestricabilmente vincolato a mezzi materiali) come luogo dell’immateriale, deve farsi carico di questo sentire, anche in controtendenza a quanta contemporaneità va proponendo, assuefatta dalla cultura del sovraesposto e dell’ipervisibile.

M.Z.: 18/12 (intervento cancellato)

“Ho cercato di sfruttare la situazione il più possibile, certo sapevamo che era un clip ma questo non ci ha impedito di fare cose che ci interessavano veramente , come le maschere d’argilla, le docce francesi, il bagno turco. – Io credo che non tutte le cure funzionino indistintamente, ci sono stati di equilibrio anche nel degrado, intendo dire che una volta eliminate le impurità hai la sensazione di scomparire anche tu insieme alla malattia. Esclusivamente una esigenza di restauro, mantenersi vecchi dentro e ripristinare il corpo, bisognerebbe attingere dall’estetica di questi luoghi. pavimenti a mosaico, il verde acqua, i vapori che appannano tutto. È bello averne già bisogno – Spero vi siate divertiti, io credo in compenso che le mie prestazioni già non certo deludenti, abbiano tratto giovamento. In fondo non c’è limite al miglioramento, sono successe cose molto strane, ma come sapete non sono quelle che avete visto. Quasi sempre il meglio non si può vedere : perché?”. (bluevertigo, la crisi, intervista video).

M.T.:16/12/2021 – Quasi sempre il meglio non si può vedere, perché?

Leggo stasera questo tuo intervento e mi viene in mente che ho ragionato e visualizzato per giorni, una possibile “forma” delle carte. Si sono manifestate come i libretti delle carte d’Armenia. Ne ho bruciato una strisciolina, ha l’odore acre e dolciastro, quasi come il benzoino. Piccoli libretti composti da 36 fogli pretagliati. Farli a mano? Quanti farne? Lasciarli puliti? Farne una tiratura limitata? Bruciare ed espandersi nell’aria senza confini, senza limiti alcuni, se non la durata. Lo spazio e il tempo sono ambienti dove possiamo muoverci all’infinito e dove ogni cosa è possibile.

“Lo spazio a tre dimensioni è l’ambiente in cui la fisica classica studia il moto dei corpi e le sue cause. In tale spazio fisico ci si può spostare con continuità. In questo senso, lo spazio, oltre che un ambiente, è anche un concetto fisico che, unito a un altro concetto fondamentale, il tempo, definisce la velocità. Per velocità di un corpo (v) si intende, infatti, il rapporto tra lo spazio percorso (s) dal corpo e il tempo impiegato a percorrerlo (t): v = s/t. Usualmente la velocità viene misurata in chilometri all’ora (km/h) oppure in metri al secondo (m/s).”(fonte Treccani)

E poi i nomi? Dare nome alle cose e riconoscersi nel confine di un suono pronunciato? O espandersi oltre la terra, il mare, e diventare il suono del mondo. Già siamo sparsi. Oggi è la seconda volta che scrivo il mio nome all’interno di un breve video.

D.S.: A quanto pare, chi in un modo o in un altro, rileviamo un problema con il principio di non contraddizione. Quindi, con le convenzioni che lo stesso delimita, che siano sociali, di linguaggio o esclusivamente teoriche. Segmentare, misurare, ricollegare, distanziare, comparare, perimetrare, classificare sono le attività di sua pertinenza. Forse, la cieca fiducia nel cardine principale dell’esercizio della ragione è degenerata – in questo presente – in un eccesso analitico, peggiorato dalla  contaminazione con fattori invece del tutto irragionevoli, che danno adito a distinguo infondati e insostenibili. A ciò consegue una sorta di superstizione di ritorno generalizzabile, con i rispettivi nuovi dogmi, a numerosi ambiti. L’attitudine del pensiero logico di appropriarsi delle cose, ridurle a schemi e a dare un’identità a tutto, cerca di compensare il bisogno di controllo e dominio dell’umano. Infatti, si ha normalmente paura di ciò che non conosciamo poiché non si è in grado di prevederne il comportamento, quindi perché non è immediatamente controllabile. Riflettendo su questo prolasso del razionale, oltre che sulle sue conseguenze più ingiustificabili, torno a stimare il fatto che quanto c’è dietro ai vostri lavori, assecondando strade diverse, si sottrae dallo statuto della chiusura, perciò della procedura, tipico dell’esecuzione del controllo, per iscriversi nell’ordine dell’apertura, pertanto del processo, tipico dell’incedere artistico. Lavori, appunto, che, o durante la fase di realizzazione o successivamente a questa, sono sfuggiti o sfuggiranno dal vostro controllo. Sono opere che professano una visione allografica del concepire e del fare arte, come un testo dettato da una persona e scritto dalla mano di un’altra: ora quella del fruitore, ora quella del tempo, ora quella degli elementi in reazione reciproca. Sono operazioni che raccontano un nuovo potenziale della ricerca artistica, quale agente cicatrizzante in grado di suturare la frammentarietà del sapere di una società globale digitalizzata e a sistema economico capitalista, che ha lottizzato l’intergrità del sapere come in tante proprietà private; divide et impera. Laddove il principio di non contraddizione – per non cadere nella trappola del paradosso – separa, scaturendo dogmi, l’arte è chiamata a ricucire, a infiltrarsi nelle fenditure create da questo continuo sezionare. Come l’acqua, l’arte prende forma dalle cose mentre dà forma alle stesse. Essa può essere riscrittura continua, in grado di diluire la perentorietà del reale e la banalità del percepibile, sostituendo la rappresentazione con l’espressione, il giudizio con il parere, l’affermazione con l’ipotesi, il definire con lo sfumare.

S.T.: “(…) Eppure, di tanto in tanto, bisognerebbe chiedersi dove si sia (arrivati): fare il punto: non solo sui propri stati d’animo, la propria salute, le proprie ambizioni, credenze e ragioni d’essere, ma semplicemente sulla propria posizione topografica.(…) Interrogarsi, in un momento preciso della giornata, sulle posizioni che occupano, gli uni rispetto agli altri e rispetto a voi, alcuni dei vostri amici: rilevare gli orientamenti, le differenze di livello (quelli che come voi vivono al primo piano, quelli che vivono al quinto, all’undicesimo, ecc.), immaginare il loro spostamento nello spazio.”

Riallacciandomi a quello che ho scritto l’ultima volta, l’immagine che frulla nella mia testa è la confusione di mille-piedi che solcano il terreno, che vanno, che creano reti, linee, che hanno fretta (mi viene in mente Quad di Samuel Beckett). Cerco di riappropriarmi millimetro dopo millimetro di un mio luogo in cui voglio edificare, piantare. Le geografie ora hanno bisogno di silenzio. Sono come cippi posti all’inizio e alla fine di un confine, dove all’interno, in quella parentesi, tutto è diverso: l’aria diversa, la terra più tendente al rosso. E allora curo il mio territorio seguendo un progetto che si sviluppa tra passato, presente e futuro, esprimendosi non tanto in un’azione ma in un modo di essere coinvolti spesso con preoccupazione, lasciando qualcosa di incompiuto e di non ancora deciso, proprio come nella lavorazione di un campo solcato, arato, seminato e raccolto. Il coinvolgimento autentico in una mancanza non lascia indifferenti.

M.Z.: 31/12/2021 (intervento cancellato)

il mistico cosmetico, preoccupazioni localizzate, la caduta del colore, il colore femminile, il barbatrucco, l’arte al femminile, una pittura al femminile, cosa è visibile? cosa aggiungiamo alla superficie delle cose? come la raggiungiamo? momentanea incidenza? colorare celare, colocelare in loco, arte postale. lasciamo ai pitti il colore. i cosmetici rendono la carne più allettante. pendenti e targhette per orecchie marcano confini? tra le carte? […] “in pleasant ville, come nei casi di flatlandia e di oz, e di molte altre storie che parlano di un mondo reso colorato, il colore fu una inaspettata apparizione in un universo altrimenti grigio. due adolescenti, aspirati da un televisore, vengono miracolosamente trasportati da multicolori e inquieti anni novanta in una sitcom familiare in bianco/nero – hi honey i’m home – dalla fine degli anni cinquanta. questo mondo è come flatlandia, il parlamento e il kansas, in quanto rappresenta l’ordine, la regolarità e la stabilità. nulla cambia, mai. nulla è fuori posto e ognuno circola nelle orbite completamente senza frizioni e apparentemente beate della ripetizione quotidiana. a plesant ville non ci sono gabinetti. a parte il mangiare, che è fatto in grandi quantità senza nessun effetto evidente di alcun tipo, non ci sono funzioni corporali di qualunque genere a complicare le vite sorridenti e senza preoccupazioni degli abitanti. la discesa degli astuti e cinici – e sorpresi – ragazzi da un’altra epoca annuncia l’arrivo a poco a poco del colore. e con il colore arriva la disgregazione, la discontinuità, la confusione, la passi one e, soprattutto, il sesso, le cose cominciano a cambiare. Pleasant ville inizia a sgretolarsi. (roland barthes, a proposito di sesso e colore: “ l’ opinione comune vuole che la sessualità sia aggressiva. così l idea di una sessualità felice, dolce sensuale, piena di giubilo non la si trova in nessuna forma scritta. dove andare a leggere allora? nella pittura, o meglio ancora, nel colore”) — le persone che conoscevano il loro posto nell’ordine delle cose cominciano a desiderare di più e in maniera diversa, anzi, per l’appunto, cominciano a desiderare. — il mondo progressivamente prende colore a mano a mano che il sentimento e la passione stillano e poi inondano la vita della gente della città. —- ma non prima che i padri della città emettano decreti e garantiscano fedeltà ad una visione di non cambiamento della storia, privilegiando la continuità sul mutamento. e la camera di commercio concordi di promulgare un codice di comportamento che bandisce i colori consentendo esclusivamente l uso del nero e del bianco e del grigio. [..] ma inutilmente alla fine non c’è resistenza che tenga al colore. Esso diventa permanente” david bachelor, apokalypstick da chromophobia, 2001.

C.A.: 09.12.2021

(Talking Heads – This must be the place, 1982)

Home is where I want to be

Pick me up and turn me round

I feel numb, burn with a weak heart

C.A.: 07.12.2021

“Qualcosa è cambiato non nel modo in cui lo fai ma nel modo in cui lo lasci andare nel mondo”

(G. Agamben, Quando la casa brucia, 2020)

ABITO nasce con fare senza ‘cancellature’, aperto in gesti che congedano l’analisi cronologica di un passato iridescente. È stato necessario in questo lavoro sottrarre il movente e il motivo, richiesti in un lavoro agli esordi della sua esibizione. ABITO muore e si arrotola, stendendo una coperta (questa volta una vera coperta) alla nascita di un bambino in carne ed ossa che ha segnato un nuovo respiro. Poco prima della sua crescita interna, misurata e scientificamente perfetta ABITO viene riposto su su in alto, laddove era possibile ma non facile il recupero. Mai più srotolato, sono trascorsi sei anni. Ho creduto che, qualora srotolandolo venisse fuori una coltre di muffa e umidità, a cancellamento della geografia dei segni, avrei provveduto a bruciarlo, permettendo al fuoco di percorrere la sua intera superficie, come sul sentiero di una pirobazìa. Ad oggi non so ancora com’è.

“Separarci dal passato è la prima risorsa del potere” (G. Agamben, Quando la casa brucia, 2020)

Il virgolettato è tratto dal testo di Agamben, allegato in cartella separata. Quando ho letto questa frase per la prima volta ho creduto fosse scritto “separarci dal passato è la prima risorsa del presente”. Tutt’altro!  Quando leggo la parola potere, mi vengono in mente, oltre ad una serie di immagini legate all’assolutismo, al dispotismo degli “stati” Generali (che volendo E nolendo cambiano i nostri “destini generali”), un’arma, non quella che nell’accezione militare intesa come fendente, sterminante, ma il TEMPO che tutti noi possiamo usare come strumento di cambiamento, il tempo presente.

SEPARARCI DAL PASSATO È LA PRIMA RISORSA DEL POTERE-PRESENTE.

È così in tutte le cose: nulla vive alimentato da quello che è stato. Nemmeno il fuoco.

“Come abbiamo potuto continuare a vivere e pensare mentre tutto bruciava?”

(G. Agamben, Quando la casa brucia, 2020)

Tutto bruciava mentre noi abbiamo continuato a vivere e pensare… Qualcuno sa farlo. Tutto brucia quando si continua a vivere e pensare al passato, quando la memoria non ha lasciato in eredità alcuna competenza di reinvenzione. La prima immagine, piuttosto divertente e allo stesso tempo blasfema, che mi torna in mente quando penso al verbo “bruciare” è di un presepe realizzato nella mia prima casa a L’Aquila, qualche mese dopo il mio trasferimento in quella città. Ne avevo realizzato uno di fortuna, nel salotto posto all’ingresso dell’appartamento dove vivevo con la mia famiglia in via Salaria Antica Est alle porte della periferia di L’Aquila. Al centro di questo presepe, come fuoco illuminante e riscaldante, avevo posto un calore vero…a mio avviso più efficace del respiro del bue e dell’asinello: una candela galleggiante, fuoco e acqua in un solo contenitore. Esco dalla stanza e vado a consumare il mio pasto seduta a tavola con il resto della famiglia quando dalla stanza accanto sentiamo un delicato scoppiettio accompagnato da un notevole odore di fumo. Il salotto era in fiamme, le tende dello stesso anche … Qualcosa dev’essere andato storto nell’elaborazione del calore di questa natività. Non volevo rimanere in quella casa, non in quella città, non trovavo nessun messaggio di speranza in quella venuta figurata. Così ha preso fuoco. Nel tempo ho riletto quelle fiamme come intrinseca volontà di bruciare l’ingresso in quella nuova vita.  Quando la casa brucia …. e sei tu ad aver acceso il fuoco.

“La luminosità segnala che dentro quelle stanze, come fuoco che arde, si vanno consumando altre vite ”. Questa frase di Davide, esatta e disarmante, ha acceso molte riflessioni. La vita accesa tra le mura è intermittenza di carni e di sguardi ; il calore proveniente da quella energia è percepibile solo nella condizione dell’“altro visto da sé”. Al contrario chi è dentro non vede alcuna luminosità. Quella luce, per chi è dentro, è materia infiammabile, e quel pericolo, fatto di prossimità, assuefazione e simbiotica parestesia, amalgama e rende ciechi.

Incontro 17 Dicembre 2021 – FREEMOCCO (Attilio, Claudia, Sara, Serena, Meri).

Durante il nostro incontro da Attilio sono emerse parole e numeri:

o   Absidi

o   108

o   Parassita

o   Riempire

o   Appropriazione

o   Moneta

Punti di contatto che legano insieme immagini concrete e/o astratte.

–         ABSIDE: giuntura, arco, volta. Costruzione spesso facente parte di un più complesso edificio a pianta perlopiù semicircolare ma anche poligonale o varia, coperta da una calotta semisferica CATINO elemento tipico dell’architettura romana, si ritrovava soprattutto nella chiesa cristiana ove si apre al fondo della navata centrale e talvolta anche di quelle laterali e dei due bracci del transetto.

Un’opera di Attilio che recupera elementi di terracotta, residui di passate cotture

–         108: poligono di 5 lati somma dei loro angoli interni uguali tra loro

108 risponde ad una geometria che vede 5 angoli sulla stessa superficie con cinque aperture identiche: un poligono. Come cinque persone nello stesso spazio tra lavori e conversazioni.

–         “Su la fiumana ove ‘l mar non ha vanto” (Inf. II 108): Santa Lucia, in Paradiso, avverte Beatrice che Dante, da poco uscito dalla selva oscura, sta per dannarsi (la morte spirituale), poiché egli è alle prese con un tempestoso corso d’acqua (fiumana) su cui il mare non ha vanto, ossia non prevale; verso d’interpretazione discussa con il quale il poeta vuole indicare la selva del peccato, piena di pericoli, più di quanti ne abbia il mare reale.

Ho inserito questo verso, per la sua potenza. L’anno dantesco, in alcuni casi, ha fatto sì che prendessimo le distanze da quest’opera eterna…perché presente ovunque.

Meri annovera, giorno dopo giorno, Sante e Santi ricorrenti. Costoro diventano indizio e guida, avvertimento. I loro simboli rivelano la traduzione e il significato della loro presenza in molte opere.

In questo momento storico Santa Lucia sembra a noi renderci gli occhi, laddove parte del volto è velato/mascherato, quando il gusto viene meno e il naso non ci orienta, ce li porge su un piatto o incastonati in una lanterna, come simbolo di luce e non di martirio.

Gli occhi sono le fiamme del volto.

–         PARASSIT0 (parassita): in uso nell’antica Atene per indicare funzionari culturali onorati della mensa comune. L’etimo è il verbo παρα-σιτέω, che significa “mangio insieme con, sono commensale di “e «indicava in origine prevalentemente il ‘commensale’, colui che mangia a spese del suo ospite ma che di fatto non gli causa danni (anzi porta lustro all’ospite, come nel caso dei poeti). In biologia ogni animale o vegetale il cui metabolismo dipende per tutto o parte del ciclo vitale di un altro organismo vivente, detto ospite con il quale è associato più o meno intimamente e sul quale ha effetti dannosi.

Il sostantivo è emerso durante il nostro incontro a Deruta. Nel fluente e coinvolgente discorso di Serena sulle sue opere, proposte/aperte nel pieno della loro fioritura, a chi sbalordito pensava fossero invece al culmine della loro decadenza. Non corrispondenti alle opere “usuali” e FORTUNATAMENTE diverse dal principio …. In fase di metamorfosi. Volutamente Abitate.

–         RIEMPIRE (ri-empire o empiere): far pieno. La differenza fra empire e riempire non si limita all’idea di azione più completa e intensa del secondo. Si dice sempre riempire e non empire in particolar modo quando si tratta di interstizi o intervalli lasciati o rimasti vuoti…

A rigore di memoria questo verbo è emerso parlando dello spazio da abitare.

–         APPROPRIAZIONE: 1.fare proprio, prendersi, attribuirsi; 2. adattare, attribuire; 3. Dare in proprietà

–         MONETA: attributo di Giunone che secondo gli antichi significherebbe AVVERTITRICE (da monere “avvertire”) per i buoni avvertimenti dati dalla dea ai Romani nei pericoli; l’estensione del significato alla moneta intesa come denaro è dovuta al fatto che la zecca di Roma si trovava nelle vicinanze del tempio dedicato a Giunone Moneta sul Campidoglio.

La moneta è stata citata come elemento di connessione tra un passato ritrovato perché conservato e una lettura e decifrazione dello stesso. Meri raccontava del ritrovamento di antiche monete bi-lingua memoria di un vissuto familiare.

  1. 12. 2021

–         INVENTARIO: dal latino inventarium – inventus participio passato di INVENIRE, trovare. Elenco, registro per trovare qualcosa che è in altro luogo. 1. Rivelazione enumerazione descrizione capo per capo di oggetti e documenti e beni esistenti in un momento determinato in un dato luogo; 2. L’atto il registro il libro in cui i dati e gli elementi ricavati dalle operazioni di inventario; 3. Raccolta elencazione ordinata di cose non materiali.

Inserisco questo termine non a caso al termine di questo anno, perché ciascuno di noi in questi giorni, come un contabile affannato dal tempo residuo alla mezzanotte, fa Inventario di quello che è rimasto e Pronostico di quello che potrà arrivare.

“L’uomo oggi scompare, come un viso di sabbia su bagnasciuga. Ma ciò che ne prende il posto non ha più un mondo, è solo nuda vita muta e senza storia, in balia dei calcoli del potere e della scienza. Forse però soltanto a partire da questo scempio che qualcos’altro potrà un giorno lentamente o bruscamente apparire – non un dio, certo, ma nemmeno un altro uomo- un nuovo animale, forse, un’anima altrimenti vivente”.

Capita in questo periodo di imbattersi in persone senza volto e di non riuscire a riconoscere neanche chi ben sappiamo. Lo svelamento del volto, libero dalla maschera, cambia i connotati fisiognomici di persone fino ad allora immaginate con altra compagine di denti e con altro accessorio di naso.

La maschera ci tiene uniti nello stesso lutto. Abbiamo tutti perso lo STESSO…, quello che apparentemente fino a qualche tempo fa sembrava essere da noi condotto: il libero arbitrio.

Si ha l’impressione che le persone intorno siano cambiate ed è quello che anche loro pensano di te (?). Si è innescata una estrema paura dell’altro che viene visto come potenziale sottrattore di libertà. Ma essendo nella maggior parte delle parti un sentimento reciproco, si rimane diffidenti e contendenti di uno spazio, dove chi muove un passo osserva l’altro retrocedere e viceversa: un terribile valzer (strisciare). Ma non potendo farne a meno, da buoni animali sociali, le persone s’incontrano comunque, nel sospetto, lo stesso che le tiene a misurata distanza, lo stesso che CI fa guardare le cose da lontano non tanto per guardarle nella loro interezza, quanto per evitare che possano toglierci la vicinanza, l’abbraccio a cui tanto ambiamo.

E più rimaniamo lontani e più ci allontaniamo.

SINE.STASIA, altro che figura retorica!

Quando non senti… abbassi la mascherina. Impossibilità di udire quando viene meno la VISIBILITÀ DELLA VOCE. “La maschera non muta rende allontanati” di recente letto in Eclissi del volto di I.Goldberg.

“CAMPI DI SEPARAZIONE” (2021)

“Non è forse vero che il fuoco morendo arrossisce? Chi ha soffiato su un fuoco pigro coglie una chiara distinzione tra il fuoco recalcitrante che tende al rosso e il giovane fuoco che tende come dice con grazia un alchimista “verso l’alto rossore del papavero di campagna”. Davanti al fuoco che muore chi soffia si scoraggia non ha l’ardore sufficiente per comunicare la sua potenza. Se è realista (…) realizza il suo scoraggiamento e la sua impotenza, trasformando la sua fatica in fantasma. Così la mobilità umana è trasmessa alle cose. Ciò che declina o emerge in noi diventa il simbolo di una vita soffocata o attenta al reale. Una simile comunione poetica preparare gli errori più tenaci per la conoscenza oggettiva” (G.Bachelard, L’intuizione dell’istante e la psicoanalisi del fuoco, 2010).

“Campi di separazione”. Questa serie di lavori, come del resto Abito, (coperta), prende i passi da un gioco di colori solito dell’età scolare. Si riempie un’immagine, il più delle volte data, di colore. Si sotterra la stessa ricoprendola interamente di nero. S’interviene con un segno (o un graffio) che costante e ritmico su tutta la superficie, sposta il nero per far emergere il colore sottostante.

I solchi sono vuoti o dei pieni? L’immagine sommersa emerge dai vuoti o nei pieni?

Il ritmo del segno imita il tratteggio corto e cadenzato del rigatino nel restauro, che colma le parti mancanti di una porzione di pittura ormai perduta. Attraverso una media di tonalità, sommate nella stessa porzione di superficie formicolante, il rigatino restituisce all’immagine l’arto mancante.

Campi di separazione sono distese di memoria che ci avvicinano, ci tengono distinti e schierati.

Torno a casa/resto a casa/parto da casa.

 “Villaggio degli Ulivi” un villaggio a me caro, dove sono rimaste molte famiglie e pochissimi ulivi, ma dove torno sempre, quando la mia casa verticale brucia.

Prendere aria per poi tornare a casa e scegliere, ogni volta, il piano da abitare.

Prendere aria per poi scegliere di tornare a casa per un nuovo piano da abitare.

M.Z.: 03/01/2022 grazie Claudia, grazie a tutti, è stato uno scambio intenso, oltre le parole. ho cancellato i miei interventi, contrassegnando l’azione in evidenza. ho introdotto nuovi segni di comunicazione destinati ad essere postumi. per sempre contingenti? la seguente scrittura è registrata in viaggio su due binari nello spostamento da un punto a un punto b. le parole diventano spazi di vuoto/pieno positivo/ negativo, tradotti in formule e quadrati che si moltiplicano per diventare intelligibili nello spazio e nel tempo finché ci sarà una mano umana a modificarli, ad azionarli, renderli pubblici per un pubblico. rimane qui un codice immateriale stampato, le nostre impronte sulla carta. mutevole in altre pagine non materiali eppure sempre visibili. a chi leggerà? i contenuti immobili, che cambiano nel tempo, a raccontare altre parole non/con oggetti. vi ringrazio per questo scambio che ha messo in circolo idee sotto traccia, e gli sguardi che lo alimenteranno sfogliando questa carta.

M.T.: 03/12/2021 – “Perché il linguaggio dell’arte possiede un potere di condensazione fuori dalle regole della comunicazione codificata, un tasso di asocialità che può rimanere incontrollato” (A.B.Oliva, R.Barthes Intermezzo, 2004).

Rileggo e riemerge l’infinito delle nostre percezioni, delle quali forse non siamo coscienti fino in fondo, perché in qualche modo educati, come in Flatlandia o in Pleasantville, a dominare la vita con canoni, identità e dialettica che possano contenerne il continuo trasformarsi. E forse le domande che ci siamo poste, e quelle che ci porremo, sono proprio quell’interferenza che ci fa riflettere sugli smagliamenti del nostro tempo, quello sconvolgimento che si attua inesorabilmente “Cum Deus calculat fit mundus”; la vita e l’arte che accade a dispetto di tutto e nonostante noi.

“Eppure continuo a esistere nella speranza che queste mie memorie, in qualche modo, non so come, possano trovare una strada per giungere alla mente dell’umanità di qualche Dimensione, e possano suscitare una razza di ribelli che si rifiutino di essere confinati in una Dimensionalità limitata.”                                                         (Edwin A. Abbott, Flatlandia, 1884)